
L’assegno divorzile, secondo l’approccio tradizionale, era ritenuto avere natura assistenziale, dovendo ossia garantire all’ex coniuge, indipendentemente dallo stato di bisogno, lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Questa configurazione è stata, però, rivoluzionata da alcuni interventi giurisprudenziali della Suprema Corte che ha poi indotto il legislatore ad intervenire sulla disciplina con la cd Riforma Morani.
Secondo la prospettiva tradizionale, l’assegno divorzile – che sostituisce l’assegno di mantenimento previsto in caso di separazione dei coniugi – dopo la cessazione degli effetti civili del matrimonio, rivestiva una natura assistenziale, ovvero lo scopo di garantire all’ex coniuge, incapace di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento, lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Il tenore di vita cui si faceva riferimento non era soltanto quello mantenuto dai coniugi nel corso del matrimonio, ma anche quello che avrebbero potuto successivamente mantenere in base alle loro potenzialità economiche.
Conseguentemente, per ottenere l’assegno divorzile non era necessaria la sussistenza di uno stato di bisogno, ma lo stesso poteva anche essere richiesto dal coniuge economicamente autosufficiente, il quale, in seguito alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva subito un deterioramento delle proprie condizioni economiche: per ristabilire una situazione di equilibrio rispetto al tenore di vita precedente, l’altro coniuge doveva corrispondere l’assegno per la differenza.
La configurazione tradizionale dell’istituto in esame è stata rivoluzionata da due interventi della giurisprudenza di legittimità.
In primo luogo, la pronuncia della Cassazione n. 11504/2017 ha stabilito che il Giudice di merito, investito della questione, debba innanzitutto verificare in astratto l’esistenza del diritto all’assegno, con riferimento all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Successivamente, il Giudice deve determinare il quantum necessario per superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituisce il “tetto massimo” della misura dell’assegno.
La pronuncia in esame si caratterizza per porre per la prima volta l’attenzione sul fatto che qualora l’ex coniuge sia indipendente o autosufficiente economicamente, l’attribuzione dell’assegno divorzile determinerebbe, in sostanza, un illegittimo arricchimento: risultando l’assegno fondato soltanto sull’esistenza di un rapporto matrimoniale ormai estinto, lo stesso assumerebbe i contorni di un’attribuzione vita natural durante, in assenza di termine alcuno.
In particolare, il contenuto innovativo della sentenza in questione deve individuarsi nella creazione giurisprudenziale di un nuovo parametro per il giudizio di inadeguatezza dei redditi nonchè dell’impossibilità oggettiva di procurarseli, ovvero l’indipendenza economica del richiedente.
Secondo la Cassazione, gli indici da cui dev’essere desunta l’autosufficienza dell’ex coniuge devono essere individuati nel possesso (i) di redditi di qualsiasi specie, di (ii) cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari, nella (iii) disponibilità di una casa di abitazione e nella (iv) capacità e possibilità effettive di lavoro personale.
I principi espressi dalla richiamata pronuncia della Cassazione n. 11504/2017 sono stati sviluppati dalla più nota sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018, che ha individuato i criteri per il calcolo dell’assegno divorzile e, che escludono, espressamente, il riferimento al tenore di vita tenuto dall’ex coniuge in costanza di matrimonio.
In particolare, secondo la Corte, “ai fini del riconoscimento dell’assegno, si deve adottare un criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto”, con la conseguenza che, l’assegno divorzile, accanto ad una funzione assistenziale assume, in pari misura, una funzione compensativa e perequativa.
Deve evidenziarsi, quindi, che al tradizionale concetto di “condizioni dei coniugi” è sostituito da quello più specifico di “condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito della fine del matrimonio”.
Tuttavia, le novità di maggior rilievo devono individuarsi:
(i) nel riferimento non solo alla valutazione complessiva dell’intera storia coniugale, bensì anche ad una specifica prognosi futura, con la conseguenza che la determinazione del quantum dell’assegno dovrà fare riferimento all’età, allo stato di salute dell’avente diritto, oltre che, si evidenzia, alla durata del vincolo coniugale;
(ii) nella valorizzazione del profilo perequativo – compensativo dell’assegno, disponendo la Corte, in particolare, che dev’essere accertato, in maniera rigorosa, il nesso causale esistente tra la situazione del richiedente al momento dello scioglimento del vincolo coniugale e le scelte endo-familiari prese in costanza di matrimonio.
Conseguentemente, si può supporre che abbia diritto all’assegno di mantenimento la donna che, rinunciando al lavoro, abbia permesso al marito di dedicarsi totalmente alla propria attività lavorativa, incrementando la propria ricchezza, qualora la scelta sia condivisa da entrambi i coniugi. Si può ritenere, invece, che non ne abbia diritto, l’ex moglie che abbia deciso consapevolmente di non lavorare, potendo godere di un elevato tenore di vita derivante dall’attività lavorativa dell’ex marito.
Sulla base dei principi sopraevidenziati, sembrano potersi individuare alcune ipotesi in cui il giudice sia tenuto a riconoscere un assegno divorzile all’ex moglie, ovvero:
- sia disoccupata senza colpa, e abbia fornito la prova di aver tentato di trovare un’occupazione ma non via sia riuscita;
- sia disoccupata e si trovi in età avanzata, con la conseguenza che non riesca più ad inserirsi nel mercato del lavoro. Analoga valutazione può farsi nel caso sia occupata part-time;
- essendosi occupata della famiglia, su decisione presa concordemente con l’ex marito, non abbia maturato una formazione professionale, qualora dimostri che l’assenza di un’occupazione per il periodo nel quale è stata sposata le ha impedito di maturare la necessaria esperienza per crescere professionalmente, ragion per cui non è in grado di reperire un’occupazione da dipendente o non sia in grado di gestire un’attività in proprio;
- sia inabile al lavoro a causa di gravi patologie.
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I principi espressi dalle soprarichiamate sentenze hanno indotto il legislatore ad intervenire sulla disciplina divorzile, per adeguarla alle fondate censure mosse dalla giurisprudenza di legittimità all’attuale disciplina dell’istituto; la cd. Riforma Morani, infatti, dopo essere stata approvata dalla Camera il 14 maggio 2019, dal 16 luglio dello stesso anno risulta all’esame della seconda commissione giustizia del Senato.
Quanto all’eventuale efficacia, ad oggi, del revirement giurisprudenziale riguardo ai presupposti ed alla misura degli assegni divorzili in corso di corresponsione, si sottolinea che, ai sensi dell’art. 9, comma, primo, l. n. 898/1970, l’importo dei medesimi può essere oggetto di revisione qualora “sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio”.
I giustificati motivi sopravvenuti previsti dalla norma si riferiscono a fatti nuovi intervenuti successivamente al provvedimento di cui si domanda la revisione, da identificarsi “non soltanto l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma anche la idoneità di tale modifica a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti” [1].
La questione è stata oggetto di una recentissima pronuncia della Cassazione[2], secondo cui il mutamento dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità non integra, di per sé, un giustificato motivo sopravvenuto, richiesto invece dall’art. 9, comma 1, della l. n. 898/1970 per la revisione dell’assegno.
Tali motivi, infatti, attengono ad elementi di fatto e devono essere accertati dal giudice ai fini del giudizio di revisione, da rendersi, poi, al lume del diritto vivente.
Ciò significa che qualora intervenga una modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi, idonea a mutare il pregresso assetto patrimoniale che aveva determinato l’obbligo di corresponsione dell’assegno, potranno farsi valere anche i nuovi principi espressi dalla Corte di Cassazione relativamente ai suoi presupposti ed alla determinazione del relativo quantum.
Conseguentemente, chiunque corrisponda un assegno divorzile all’ex coniuge dovrebbe rivolgersi ad un legale competente nell’ambito del diritto di famiglia, in quanto la corretta valorizzazione delle circostanze di fatto, attinenti ai mutamenti patrimoniali dell’altro coniuge, potrebbe essere la chiave per ottenere la revisione dell’importo dell’assegno alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza di cui si è dato conto.
[1] Cfr. Cass. Civ. n. 787/2017.
[2] Cfr. Cass. Civ. n. 1119/2020.