La disciplina della pubblicità comparativa, pratica storicamente considerata con sfavore dal nostro sistema giuridico, a partire dall’inizio degli anni 2000 è stata oggetto di diversi interventi legislativi e giurisprudenziali volti ad adeguare il vigente regime regolatorio alla disciplina comunitaria.
La pubblicità comparativa rappresenta la modalità di comunicazione pubblicitaria mediante cui un’impresa promuove i propri beni o servizi, mettendoli a confronto con quelli concorrenti.
Tale forma pubblicitaria ha storicamente riscontrato lo sfavore del nostro sistema giuridico ed è stata a lungo ricondotta alle pratiche commerciali integranti atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c. c..[1]
Alcune pronunce giurisprudenziali, tuttavia, hanno successivamente mostrato un moderato favor verso tale pratica commerciale, qualificandola quale strumento di informazione del consumatore finalizzato ad “acquisti consapevoli”.
Il confronto, infatti, avrebbe potuto permettere al consumatore di meglio valutare quali prodotti, tra quelli dello stesso genere, possano rispondere più efficacemente ai propri particolari bisogni, attraverso una migliore analisi dei meriti di ciascun operatore, della qualità delle rispettive prestazioni e del loro costo.
Per tali ragioni, si diffuse l’opinione che un divieto assoluto della pubblicità comparativa avrebbe dovuto considerarsi un ostacolo alla libera concorrenza.
Il legislatore italiano, recependo anche tali valutazioni, si è occupato per la prima volta della pubblicità comparativa con il d. lgs. 25 febbraio 2000 n. 67[2], in attuazione della volontà del legislatore comunitario, espressa dalla direttiva 97/55/CE[3].
L’art. 2, comma 1, lett. b., definisce la pubblicità comparativa come “qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito od implicito un concorrente o beni e servizi offerti da un concorrente”.
L’art. 3 bis, comma 1, stabiliva, in particolare, le condizioni di liceità per l’ammissibilità della comparazione, ma il quadro normativo delineato ha subito ulteriori modifiche, dapprima con l’entrata in vigore del d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (cd. Codice del consumo), che individuava la pubblicità comparativa illecita tra le pratiche commerciali ingannevoli[4], individuata quale pratica che contenga “informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore” “e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
Inoltre, ai fini che qui interessano, il corpus legislativo richiamato ha espressamente stabilito che deve considerarsi pratica comparativa illecita “qualsivoglia attività di commercializzazione del prodotto che ingenera confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente”.
Successivamente, la direttiva comunitaria 2006/114/CE, che ha sostituito la precedente direttiva 2005/29/CE – in particolare l’art. 14 modifica le disposizioni in tema di pubblicità ingannevole e comparativa – ha introdotto una vera e propria disciplina generale della pubblicità commerciale applicabile a qualsiasi messaggio pubblicitario, quali siano le caratteristiche del bene o del servizio che ne costituisce oggetto e la tipologia di utilizzazione cui tale bene o servizio può essere adibito.
La pubblicità comparativa, nello specifico, viene definita quale “pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente”.
In Italia il recepimento della Direttiva 2005/29/CE, e quindi della successiva direttiva n. 2006/114/CE, è avvenuto attraverso due distinti decreti legislativi, nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007, cui si aggiungono, inoltre, le disposizioni contenute negli artt. 2, 4 e 8 del d. lgs. 23 ottobre 2007, n. 221.
L’articolo 4 del decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145[5] stabilisce che “la pubblicità comparativa è lecita se sono soddisfatte le seguenti condizioni”:
a) non è ingannevole ai sensi del presente decreto legislativo o degli articoli 21, 22 e 23 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, recante «Codice del consumo»;
b) confronta beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi;
c) confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo di tali beni e servizi;
d) non ingenera confusione sul mercato tra i professionisti o tra l’operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni distintivi, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un concorrente;
e) non causa discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni, servizi, attività o posizione di un concorrente;
f) per i prodotti recanti denominazione di origine, si riferisce in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione;
g) non trae indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale ovvero ad altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti;
h) non presenta un bene o un servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati.
2. Il requisito della verificabilità di cui al comma 1, lettera c), si intende soddisfatto quando i dati addotti ad illustrazione della caratteristica del bene o servizio pubblicizzato sono suscettibili di dimostrazione.
3. Qualunque raffronto che fa riferimento a un’offerta speciale deve indicare in modo chiaro e non equivoco il termine finale dell’offerta oppure, nel caso in cui l’offerta speciale non sia ancora avviata, la data di inizio del periodo nel corso del quale si applicano il prezzo speciale o altre condizioni particolari o, se del caso, che l’offerta speciale dipende dalla disponibilità dei beni e servizi.
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Delineato il quadro normativo generale relativo alla pratica commerciale della pubblicità comparativa, può rilevarsi che, generalmente, la stessa si esplichi con le seguenti modalità:
- Pubblicità comparativa diretta o nominativa:
Il confronto ha luogo con uno o più concorrenti, espressamente nominati o comunque indicati attraverso i loro marchi o attraverso la visualizzazione del prodotto.
- Pubblicità comparativa diretta per relationem:
Il confronto, pur senza menzione espressa del nome o dei segni distintivi dei concorrenti, li identifica in ogni caso mediante riferimenti inequivocabili.
- Pubblicità comparativa indiretta:
Trattasi di espresso raffronto fra il prodotto pubblicizzato e i prodotti concorrenti, di norma indicati solo nel genere e nessuno dei quali viene nominato, individuato o reso riconoscibile; è utilizzata per evidenziare pregi specifici suscettibili di essere dimostrati.
- Pubblicità comparativa superlativa od iperbolica:
Contiene riferimenti ad asseriti primati mediante l’utilizzo di superlativi relativi nel paragone con tutti gli altri prodotti o servizi del medesimo genere.
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Alcuni precedenti giurisprudenziali hanno posto importanti principi volti a specificare, dal lato pratico, le condizioni di liceità della pubblicità comparativa precedentemente evidenziate.
In particolare, il Tribunale di Milano[6] ha stabilito, in materia di componenti meccanici (riduttori di velocità) facenti parte della trasmissione della potenza dal motore ad un elemento finale, che non sussistesse il requisito di omogeneità tra componenti “a dentatura dritta” e quelli “con denti elicoidali”, questi ultimi più silenziosi per la loro stessa tecnica costruttiva: conseguentemente, condannava la società che pubblicizzava i propri prodotti quali i più silenziosi del mercato, senza specificare la peculiare caratteristica che li rendeva tali.
In altra occasione, il medesimo organo giudicante ha stabilito che costituisce pubblicità comparativa illecita, in quanto trae indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio di un concorrente, nonché presenta i beni offerti in commercializzazione come imitazione di beni protetti da marchio registrato, la condotta di una società che pubblicizzi i propri prodotti rivendicandoli come “simili a quelli acquistati direttamente dalla casa madre” ma “a prezzi più vantaggiosi”, distinguendosene solo “per l’assenza del marchio”[7].
Quanto alla pubblicità ingannevole circa il prezzo dei beni, la Corte di giustizia europea ha recentemente precisato che il corrispettivo di prodotti venduti in negozi diversi quanto a dimensioni e tipologia può essere considerata lecita, ai sensi della norma sopra menzionata, soltanto qualora vi sia un confronto obiettivo e non ingannevole.
In particolare, nel caso sottoposto, il giudicante ha ritenuto illecita la pratica commerciale di una nota azienda della grande distribuzione che raffrontava i prezzi di 500 prodotti di grandi marche, applicati nei propri ipermercati, con quelli applicati sui medesimi beni, presso insegne concorrenti, nei propri supermercati[8], senza specificare le differenze sussistenti tra le dimensioni delle strutture preposte alla vendita.
Inoltre, è stato stabilito che deve considerarsi illecita l’indicazione, in uno spot televisivo di un detersivo, di un’efficacia pulente superiore rispetto al principale concorrente, salvo indicare in caratteri molto piccoli che la superiorità del prodotto è stata testata soltanto su una tipologia di macchia.
Infine, in tema di pubblicità comparativa iperbolica, è stato stabilito che è illecita la pratica commerciale che si sostanzi in una promessa non adeguatamente supportata da una prova tecnica di sostegno scientificamente fondata (trattatasi, nel caso in esame, di una comunicazione pubblicitaria che “millantava” che la crema solare in questione fosse l’unica ad accelerare il processo di abbronzatura, pur proteggendo, al contempo, dai raggi solari)[9].
[1] Questo tipo di pubblicità si afferma in America negli anni sessanta mentre in Europa, negli anni settanta, vengono intrapresi i primi interventi legislativi per disciplinarne l’ambito di applicazione.
[2] Il testo normativo richiamato introduce modifiche al d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, recante norme in materia di pubblicità ingannevole, in attuazione della direttiva 84/450/CE.
[3] La direttiva modifica la precedente 84/450/CE recante norme in tema di pubblicità ingannevole.
[4] L’ingannevolezza può riguardare le caratteristiche dei beni o dei servizi, come la loro disponibilità o la data di fabbricazione, il prezzo e le condizioni di fornitura.
[5] La norma si propone di tutelare tutti i soggetti del mercato e, quindi, non soltanto i professionisti concorrenti dell’imprenditore, ma tutti coloro ai quali il messaggio pubblicitario è indirizzato o attraverso il quale vengono raggiunti, a prescindere che si tratti di persone fisiche, enti collettivi o dalla natura personale o professionale degli usi cui si prestano ad essere adibiti i beni o servizi cui il messaggio pubblicitario si riferisce.
[6] Cfr. Trib. Milano, Sezione specializzata in materia di Impresa A, 17 febbraio 2016, Rel. Giani, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[7] Cfr. Trib. Milano, Sezione specializzata in materia di Impresa A, 27 giugno 2013, Rel. Giani, in il caso.it.
[8] Cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, causa C-562/15, 8 febbraio 2017.
[9] Giurì autodisciplina pubblicitaria, pronuncia n. 28/2011 del 15/3/2011.